Dasein Journal Numero 8 Aprile 2019
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In This Issue:

Prof. Claudio Calliero

Claudio Calliero

Dottore di ricerca in Scienze dell’Educazione, collabora con l’Università degli Studi di Torino come professore a contratto di Didattica; diplomato in Counseling Filosofico presso SSCF; docente di scuola primaria.

Prof. Alberto Galvagno

Alberto Galvagno

Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo “Augusta Bagiennorum” di Bene Vagienna, collabora con la Facoltà di Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Torino.

Dasein Journal, Rivista di Filosofia e Psicoterapia esistenziale
Dasein Journal - All Numbers     

Dasein n°8, Aprile, 2019

La pratica filosofica in età evolutiva, Prof. Claudio Calliero1 e Prof. Alberto Galvagno, Dasein Journal 8, p. 41-58 , Scarica Articolo PDF


Possibilità e forme della filosofia con i bambini e con i ragazzi, Prof. Claudio Calliero

Si può fare filosofia con i bambini e con i ragazzi?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo tenere in considerazione le peculiarità dell’età della vita che chiamiamo età evolutiva, caratterizzata da capacità di ragionamento e di giudizio in via di formazione ma non ancora pienamente sviluppate, da un’iniziale totale dipendenza dall’adulto che muta in progressiva autonomia, da potenzialità mentali del tutto particolari e per molti versi sorprendenti (capacità mnemoniche, apprenditive, immaginative) che in età adulta perlopiù si perdono, dall’entusiasmo e dallo stupore che solo chi vede le cose per la prima volta può avere.

Il bambino, cioè, con il suo egocentrismo, trova spiegazioni che sono soddisfacenti per lui in quel momento, senza «costringersi alla ricerca del vero» in assoluto.

Piaget, basandosi su riscontri sperimentali, afferma che «le rappresentazioni infantili procedono per schemi globali, e per schemi soggettivi, cioè non corrispondono a delle analogie e a dei legami causali verificabili da tutti» (Piaget, 1958). Da ciò emerge che il bambino non può far filosofia in senso pieno, sebbene abbia una sua “filosofia”. Piaget esplicita questa conclusione in un articolo scritto in inglese nel 1931, intitolato Children’s Philosophies. «È superfluo dire che il bambino in realtà non fa filosofia, propriamente parlando, in quanto egli non mira mai a codificare le sue riflessioni in qualcosa che assomigli a un sistema. ...Non si può parlare che metaforicamente di filosofia del bambino. Per quanto le osservazioni spontanee dei bambini sui fenomeni della natura, della mente e sull’origine delle cose appaiano sconnesse e incoerenti, siamo in grado di riconoscere in esse alcune tendenze costanti, che ricompaiono con ogni nuovo sforzo di riflessione. Sono queste tendenze che chiamiamo “filosofie infantili”».

A partire dagli anni Settanta, tuttavia, nei testi di psicologia cognitiva e dell’educazione compaiono sempre più frequentemente le espressioni “teoria ingenua” o “teoria intuitiva”. Con esse si esprime l’idea che a tutte le età le persone cerchino di interpretare la realtà in maniera sistematica (cfr. Donaldson, 1979). Da questo punto di vista è possibile attribuire maggior valore di coerenza, organicità e grado di obiettività al pensiero di bambini e ragazzi, e quindi anche alla loro capacità di filosofare. Lo statunitense Gareth B. Matthews, in alcuni testi degli anni Ottanta e Novanta, si occupa proprio di analizzare la filosofia del pensiero infantile, stimolando e raccogliendo le riflessioni dei bambini, con una modalità simile a quella di Piaget, ma in aperto contrasto con esso. Secondo Matthews, infatti, Piaget nell’interrogare i fanciulli «scoraggia la filosofia». «Di fatto, tutte le nozioni che Piaget afferma d’aver rilevato nei bambini sono un invito alla riflessione filosofica», quindi egli «ha l’opportunità di fare della filosofia con i bambini, ma non la sfrutta». Matthews invece sollecita genitori e insegnanti a praticare il gioco filosofico con i piccoli; altrimenti, se si rifiutano di farlo, «impoveriscono la loro vita intellettuale, riducono le relazioni coi loro bambini, scoraggiando in questi lo spirito di una ricerca indipendente» (Matthews, 1981).



Anche Jaspers, nell’Introduzione alla filosofia, affronta la questione del rapporto tra i fanciulli e la filosofia descrivendo giovanissimi che si arrovellano sull’enigma dell’io, oppure si chiedono cosa c’era prima del principio, o ancora si stupiscono dell’universale dileguarsi di ogni cosa, così che si può trovare sulle loro labbra «ciò che va diritto nelle profondità della filosofia». E all’obiezione «che questi fanciulli non sviluppano questo loro filosofare» risponde che in realtà «i fanciulli posseggono sovente una genialità che va poi perduta col crescere». Più avanti nel testo, però, Jaspers specifica che sebbene «la filosofia investa ogni uomo, a cominciare dal fanciullo», tuttavia la sua elaborazione consapevole richiede uno studio, che include tre direzioni: la partecipazione all’indagine scientifica, lo studio dei grandi filosofi e la quotidiana condotta filosofica della vita. «Chi trascura una di queste direzioni, non può giungere a un chiaro e veridico filosofare».

Il fenomeno Philosophy for Children può essere inserito nel novero delle pratiche filosofiche che, nel corso degli anni, hanno manifestato la tendenza a diversificarsi, includendo oltre ai rapporti di consulenza individuale anche iniziative filosofiche di gruppo, in ambito sociale e educativo (Raabe, ad esempio, dedica un capitolo del suo manuale sulle pratiche filosofiche alla consulenza infantile). In generale, però, sebbene sia opportuno evidenziare le affinità e la recente evoluzione parallela delle pratiche filosofiche e della filosofia coi bambini, quest’ultima ha radici autonome e peculiarità originali, tali da non renderla del tutto assimilabile alle altre pratiche.
Occorre però anche registrare un movimento che dall’ambito distinto della filosofia con i bambini si allarga a quello più generale delle pratiche filosofiche. Ultimamente, infatti, negli ambienti della Philosophy for Children, si scorge il tentativo di ampliare l’orizzonte di intervento, non solo a scuola, non solo coi bambini: la denominazione diventa più genericamente Philosophy for Communities al fine di essere applicabile in svariati contesti.

La Philosophy for Children nasce comunque come curricolo per educare le giovani menti al pensiero ragionevole, facendo riferimento paradigmatico alla filosofia non intesa come disciplina di studio.

Matthew Lipman, professore di logica alla Columbia University, ponendosi il problema di come crescere generazioni future più ragionevoli, si convince che la filosofia possa fare molto, purché si inizi a praticarla per tempo, il prima possibile.
Dai primi anni Settanta si dedica pertanto alla progettazione di un curricolo filosofico per bambini e ragazzi. Dati i presupposti scarta l’ipotesi di approntare un manuale semplificato di storia della filosofia e così pure quella di un testo a domande e risposte già definite. Ciò che gli interessa è offrire ai giovani la possibilità di fare filosofia, di ragionare filosoficamente sulla realtà. Lipman ritiene che, affinché diventi accessibile ai giovani, la filosofia vada aggredita e ricostruita. Decide allora di usare la mediazione narrativa e scrive appositamente dei racconti che forniscono spunti di riflessione filosofica. Per quanto riguarda l’uso del racconto come strumento didattico, Lipman sottolinea l’importanza della discussione di gruppo. L’adulto non deve leggere e spiegare il testo, ma deve lasciare ai ragazzi la responsabilità di analizzare i brani cogliendone le potenzialità filosofiche attraverso il dialogo e il confronto.

[...]
A dare un fondamentale risalto al fenomeno educativo nel suo complesso è l’UNESCO, istituzione da sempre attenta al ruolo della filosofia nella società e nella scuola, che dal ’98 inizia ad interessarsi alle attività di filosofia con i bambini e nel novembre 2006 organizza a Parigi una conferenza internazionale dal titolo “Filosofia come pratica educativa e culturale”.

L’UNESCO affronta la questione in senso ampio con riferimento al «diritto alla filosofia» affermato da Derrida, declinato nelle varie pratiche filosofiche (nelle relazioni di aiuto, nel lavoro, nel sociale), in particolare nell’ambito strategico dell’educazione. Qui l’UNESCO raccomanda l’introduzione della filosofia e del filosofare sin dai livelli prescolari e primari, trovando supporto nella Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia del 1989.
Il documento UNESCO riconosce Lipman come «precursore» e vede nell’adozione del suo curricolo il vantaggio di disporre immediatamente di un programma completo e assodato, e di un supporto concreto. Non manca però di sottolineare la possibilità di adattarlo e modificarlo, auspicando esplicitamente la realizzazione di percorsi pedagogici e didattici diversificati. «In generale, tutte le pratiche che sviluppano l’elaborazione del pensiero critico, l’autonomia di giudizio e il libero esame delle idee, sono da difendere. Tutte le pratiche che promuovono la ricerca del senso e della verità illuminata dalla ragione, che coltivano la domanda e la problematizzazione, che rendono consapevoli delle proprie opinioni al fine di esaminarne i fondamenti, sono da incoraggiare. Queste pratiche di tipo filosofico possono realizzarsi attraverso percorsi pedagogici e didattici differenziati. In effetti, tutte le standardizzazioni troppo rigide di queste pratiche rischiano di renderle sterili, poiché ciò che è in gioco è la formazione alla libertà intellettuale» (UNESCO, 2007).

Riflessioni sul filosofare con bambini e ragazzi a scuola, Prof. Alberto Galvagno

Stare perennemente sospesi nel circolo ermeneutico affascina i piccoli protagonisti che fanno nuove tutte le cose. Inconsapevoli della filosofia tout court, essi fanno filosofia nuova e crescono così le pagine di un libro inaspettato, il libro delle loro posizioni e supposizioni, dei loro pensieri rivisitati e delle loro originali intuizioni come quella di Martina che, parlando in classe quinta del rapporto tra verità e bene, dice che per lei ogni giorno è importante “confermare la verità con il bene fatto”. Con-filosofare tra bambini diventa il tempo e il luogo in cui il circolo ermeneutico, per dirla alla Gadamer e alla Heidegger, «non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, permanente ed ultimo è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse». Far parlare e interpretare le cose stesse, gli eventi della vita, sono attività dialogiche interne al circolo, forma esclusiva del filosofare tra bambini “a zig zag”, che divergono nei loro pensieri, che trovano idee e soluzioni inaspettate e che rifiutano ricette di pensiero confezionato.

In questo senso, dietro un apparente immobilismo intellettuale si nasconde un forte dinamismo di pensiero attivo in continua ricerca di senso, in un vorticoso dare senso ad una dimensione fondamentale di chi fa da anni esperienza di vita scolastica: stare in un luogo, vivendo un tempo e donando continuamente il proprio sé.


L’antico vocabolo skolè non indica un luogo ma un tempo, un tempo sospeso, un tempo fuori dal tempo. In questo modo, ragionare filosoficamente vuol dire stare fuori luogo, sospendere il tempo e lo spazio, per poi ritrovarlo più di prima, perché si ritorna nel tempo più consapevoli della propria esistenza nel tempo e nello spazio. Ho così ripensato alle varie esperienze di insegnante nella scuola primaria per il quale è basilare abituare gli alunni a stare in un luogo ma nel contempo a distaccarsene con il pensiero, a vivere in un contesto di apprendimento tra il qui e l’altrove dove al centro del processo di insegnamento/apprendimento collocare non solo il bambino, ma il bambino per mano al suo insegnante, in un’ottica di rivoluzione copernicana “kantiana” elevata al quadrato dove il quadrato è costituito paradossalmente dal triangolo alunno-insegnante-cultura (o meglio conoscenza partecipata in una comunità di ricerca). La riflessione mi conduce a specificare non tanto il luogo e il non-luogo, quanto lo “stare” che è sinonimo di “permanere”, del piacevole “so-stare” col pensiero in un luogo che non è luogo, per perdersi e nel contempo ricomprendersi e ricomprendere interpretando un mondo che solo in una scuola vecchia e superata è posto al di fuori di quel luogo sicuro in cui è confortante abitare: così, in termini heideggeriani, «la terra acquista agli occhi dell’uomo, che resta pur sempre straniero su di essa, una sua amabilità; si fa il luogo in cui, in una presenza distaccata, egli può poeticamente abitare e, abitando, costruire, vivere e andare incontro alla morte come alla “buona morte”. Il tempo si filtra dell’eterno». Nel circolo ermeneutico che si va formando in aula, in cui le domande di insegnante e bambini prendono vita, abitando lo spazio della discussione, in un tempo disteso, dilatato che restituisce a ciascuno il proprio tempo di riflessione e apertura all’altro interlocutore, si fa strada un linguaggio nuovo, testimone ineludibile di questa coabitazione e del contributo personale di ogni abitante del circolo. In questa casa del dialogo non c’è linea di confine, di separazione, di cesura intellettuale tra adulto e bambino; non c’è subalternità di posizioni, ma gli invitati al simposio delle parole e dei pensieri (ma anche delle volontarie omissioni!), sono chiamati a vivere e sostare in una terra di mezzo che si fa luogo dell’ascolto e del parlato, del confronto e dell’azione. La linea di frontiera che ci separa nella discussione può essere abbattuta se modifichiamo la nostra tradizionale idea di frontiera, ridimensionando l’idea della frontiera come linea di confine, per promuovere invece l’idea della frontiera come terra di frontiera.

Una terra, quella di mezzo, in cui abitare la domanda, in cui permanere nel dubbio costruttivo del sapere, in cui stare sospesi al limite delle proprie opinioni e a scavalco delle proprie convinzioni, liberi rispetto ad un habitus mentale probabilmente costruito nel lungo o breve tempo.

Spezzare un’apparente linea di separazione tra i pensieri adulti e i pensieri bambini, ci pone in una dimensione condivisa che si alimenta non solo dell’ascolto ma anche dell’argomentazione di ogni abitante che paradossalmente si sveste del proprio abito per indossarne uno nuovo, più disponibile all’apertura verso l’interrogazione di sé e dell’altro. Un abitare dunque che si fa apertura; non un abitare che si fa chiusura a riccio nella strenua difesa del proprio abitato, anche se legittimamente riconosciuto come più intimo e profondo, ma uno spazio in cui proprio ciò che è intimamente sentito, provato e più o meno consapevolmente creduto come vero, viene allo scoperto, si affaccia alla radura dell’aperto, si fa possibilità di confronto nell’apertura di un abitato. Ciò che è intimamente abitato da ognuno è proposto nel dialogo filosofico come grimaldello per la propositività, come alimento vitale per l’argomentazione.

Abitare la domanda designa a questo punto soltanto la sintesi di un’espressione più articolata che vede dunque gli abitanti di una terra di mezzo come i protagonisti di un’argomentazione che si sviluppa nel dialogo filosofico, che matura grazie alla partecipazione più o meno consapevole dei bambini e del docente per restituire a sé e agli altri un abitato condiviso. Questo spazio abitato e questo tempo dilatato si incrociano e il germe dell’argomentazione si insinua negli abitanti. È una necessità lasciarsi coinvolgere in questa terra, in questa apertura dove si ascolta il linguaggio dei parlanti.

Ma se da una parte è chiaro che l’abitare una terra presuppone che vi si pongano delle condizioni ambientali specifiche create intenzionalmente dall’insegnante, e se è altrettanto palese che l’abitare per essere realmente un’esperienza condivisa deve focalizzare la propria dinamica dialogica su un tema di discussione largamente condiviso, è opportuno specificare brevemente l’abitare come, delineandolo meglio con una metafora. Basta immaginare la persona dialogante come un barattolo di colore appena buttato in una pozza d’acqua: subito il suo colore e il suo profumo si sciolgono nel liquido. Ecco superata l’immagine kantiana delle isole della certezza fenomenica in un mare infinito noumenico inconoscibile dal puro e semplice intelletto, perché qui è in gioco un colore che in sé svanisce e permea, ma non in modo indistinto, nel vuoto tremendo dell’eterna “fine di tutte le cose”, ma un colore che dentro un luogo ignoto permea di sé, del noto, il luogo stesso, per alimentarlo con la costruzione personale della sua conoscenza e del senso profondo che il colore-bambino attribuisce al suo permeare. Questo processo può svilupparsi solo se intendiamo la pratica della filosofia come filosofia in pratica che però non può prescindere dalla filosofia come disciplina. Ciò apre una lunga discussione, che solo accenno, sulla formazione degli insegnanti che si cimentano in percorsi di filosofia con i bambini: a quale livello possedere la disciplina filosofia? Quali capacità possedere per argomentare su questioni filosofiche? Per ora, tornando al nostro colore… è forse questa metafora che può testimoniare meglio l’efficacia del percorso che la filosofia con i bambini può intraprendere in una classe che si costituisce come comunità di ricerca: ognuno permea di sé gli altri, ne influenza in modo spontaneo il pensiero, lo smuove dalle sacche del continuo perpetrare la propria inscalfibile convinzione su un determinato tema.

[...]

Il contenuto di una discussione filosofica come ciò che sta dentro alla persona o che sta fuori rispetto all’esperienza personale, è in ogni caso ciò che, mentre apre all’interrogazione esistenziale dei bambini attraverso una co-narrazione, allo stesso tempo, in quanto contenuto nel senso di “ciò che è limitato, delimitato”, restringe paradossalmente il campo della domanda e dell’indagine filosofica dei parlanti. Il contenuto è ciò che, “tenuto insieme” dalla forza dialogante del gruppo classe, orienta i parlanti e l’insegnante verso la costruzione sociale di una conoscenza filosofica del reale, verso un’interpretazione critica dei pensieri. Lo spazio, la “terra di mezzo”, vero e proprio vuoto contenitore, va per essere occupato così dalle idee dei bambini, dal loro interloquire incessante e mai domo sul pensiero. L’apprendimento di un nuovo modo di filosofare, la riappopriazione di uno stile inquisitivo socratico, che sembra perso nella notte dei tempi, è possibile attraverso l’argomentazione guidata. I problemi sono i fili di una corda e gli interventi dei bambini, spesso imprevisti, la mano sapiente che tesse la corda.

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